mercoledì 20 febbraio 2013

Per farla finita con il relativismo: contro l'intraducibilità







Uno dei principali rilievi che vengono mossi alla proposta di naturalizzazione radicale della conoscenza così come elaborata da Richard Rorty è il suo presunto condurre a una posizione relativista o a uno sterile scetticismo universale. E' indispensabile focalizzare la ridescrizione che egli fornisce di questo concetto al fine di comprendere in che modo egli si ponga al di là delle critiche mossegli. L'accusa di relativismo è la conseguenza di una antinomia tra due posizioni in merito alla 'verità': una posizione in cui si sostiene l'esistenza di criteri di correttezza oggettivi e assoluti (posizione che implica assunzioni metafisiche), e una posizione che afferma che ogni 'verità' è 'relativa' a qualcosa – culture, linguaggi, comunità, ecc.
Si possono accomunare filosofi come Habermas e Putnam per la loro preoccupazione fondamentale per la minaccia che rappresenterebbe il 'relativismo' così come inteso sopra: Habermas ha mirato nella sua riflessione a rifondare su un piano diverso, operativo e intersoggettivo, quell'universalità della ragione che vede come presupposto necessario al fine di rivitalizzare il progetto emancipativo illuminista; Putnam, pur sostenendo che norme e criteri di giustificazione sono prodotti storici e che essi si evolvono nel tempo, non rinuncia all'idea di poter trovare “un modello di giustificazione o di garanzia che non è quello di una comunità umana particolare ma in qualche modo della natura”[1].
Sembra che l'unica alternativa di chi rinunci al presupposto di una universalità e quindi di una convergenza inevitabile verso un'unica 'Verità', sia considerare parlanti di linguaggi diversi o appartenenti a culture diverse impossibilitati a comprendersi vicendevolmente, in quanto legati a dei contesti di giustificazione relativi e intraducibili. Questo tipo di relativismo può essere formulato anche in termini linguistici, ne è un esempio il relativismo ontologico di Quine: l'imperscrutabilità del riferimento, che in qualche modo starebbe 'al di là' del linguaggio, impedisce di stabilire una traduzione certa di un termine da una lingua a un'altra. A un altro tipo di formulazione ho accennato nella prima parte: è la teoria degli 'schemi concettuali' che Davidson individua come terzo dogma dell'empirismo: diversi 'schemi concettuali' imposti da diverse culture e linguaggi implicano modi differenti di percepire e organizzare i dati sensibili, generando conoscenze incommensurabili e intraducibili.
Rorty sostiene tuttavia che il significato stesso di 'posizione relativistica' diviene del tutto incomprensibile una volta che si sono abbandonati certi presupposti. Innanzitutto, rinunciando al rappresentazionalismo e all'idea di uno spazio della ragione finito e strutturato in favore di una visione della conoscenza come attività di giustificazione delle credenze tra esseri umani, non si porrà più il problema di stabilire quale sia il modo più corretto di 'rappresentare' la realtà, né la tentazione di confrontare tali 'rappresentazioni'. Come dice Davidson, occorre liberarsi delle rappresentazioni “e con esse della teoria della verità come corrispondenza, perché è l'idea che vi siano rappresentazioni a generare idee relativistiche”[2]. Una posizione relativista o assolutista assumono senso solo rimanendo nel vocabolario in cui è possibile un punto di vista o un pensiero 'esterno' a un particolare linguaggio o schema concettuale. Partendo da una prospettiva wittgensteiniana sul linguaggio, pensato non più come mezzo inerte che distorce qualcosa di 'dato' ma come insieme di pratiche e attività che gli uomini sviluppano per scopi diversi, Davidson destituisce definitivamente di validità il discorso 'relativista': “la metafora dominante del relativismo concettuale – quella dei punti di vista differenti – sembra celare un paradosso. Punti di vista diversi possono essere sensati, ma soltanto se vi è un sistema di coordinate comune nel quale disporli; e tuttavia l'esistenza di un sistema comune smentisce la tesi dell'inconfrontabilità profonda”[3].
La chiarificazione di questa incongruenza discorsiva, esposta nel saggio già citato intitolato Sull'idea stessa di schema concettuale, condivisa in pieno da Rorty, apre a una prospettiva inaspettata. Rivela che la nozione di relativismo poggia su una intuizione di 'intraducibilità completa': infatti il 'relativista' sarebbe chi riconosce l'esistenza di queste rappresentazioni o schemi concettuali diversi, inconciliabili e intraducibili ma equivalenti e allo stesso tempo ammette di poter riconoscerli come rappresentazioni e schemi concettuali, ammette cioè di poterli confrontare tra di loro.
A questo punto dunque è la intraducibilità completa che va discussa. Riassumendo la questione con le parole di Rorty, “se non ci è possibile trovare una traduzione, perché dovremmo pensare di avere a che fare con utenti del linguaggio?”[4]. Questo significa che è impossibile riconoscere qualcosa come linguaggio e al contempo ritenerlo totalmente estraneo alla nostra comprensione: sarebbe indimostrabile. Lo stesso si può dire per gli 'schemi concettuali' e per i criteri di razionalità.
Un disaccordo sensato può sussistere solo su uno sfondo di credenze per lo più condivise: un disaccordo assoluto è una contraddizione in termini, poiché è la negazione del riconoscimento dell'interlocutore in quanto tale. Il nome che Davidson dà al 'principio pragmatico' che interviene nella interpretazione (tra parlanti di una stessa lingua o di lingue diverse, non fa differenza) è 'principio di carità', ed è ciò che ci spinge ad attribuire all'interlocutore una grande quantità di credenze vere come condizione per poterlo comprendere e per far emergere le divergenze.
La teoria di Davidson meriterebbe un approfondimento ben diverso, quello che voglio aggiungere qui è come essa non contrasti e sia perfettamente coerente con il naturalismo di Rorty. Essa non postula alcuna essenza o natura umana universale, né un qualche principio astorico cui fare riferimento; è perfettamente in sintonia con il 'darwinismo' rortyano, cioè un “rendiconto degli umani intesi come animali con organi e capacità specifiche: di come certe caratteristiche della gola, delle mani e del cervello umani hanno consentito agli uomini di cominciare a sviluppare pratiche sociali sempre più complesse scambiandosi reciprocamente rumori sempre più complessi. Secondo questo modo di rendere i fatti, questi organi e queste capacità, e le pratiche che hanno reso possibili, hanno molto a che fare con chi siamo e con ciò che vogliamo, ma non ci mettono in una relazione rappresentazionale con una natura intrinseca delle cose più di quanto non facciano il muso del formichiere o l'abilità dell'uccello di raso di tessere”[5].
Ma può ancora avere un senso quella attività chiamata 'filosofia', che per definizione dovrebbe mirare a un sapere incondizionato, in tale orizzonte?


[1] Rorty R., Putnam e la minaccia relativistica, in Marchetti G. (a cura di), Neopragmatismo, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 98.
[2] Davidson D., The Myth of the Subjective, in Krausz M. (a cura di), Relativism: interpretation and confrontation, University of Notre Dame Press, Paris 1989, pp. 165-166.
[3] Davidson D., Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna 1994 , p. 264.
[4] Rorty R., Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano 1986 , p. 41.
[5] Rorty R., Putnam e la minaccia relativistica, in Marchetti G.. (a cura di), cit., p. 95.


Tecnologie del potere: Massa e autoritarismo







Freud elabora una vera e propria teoria filogenetica della civiltà [1], nei confronti della quale il complesso di Edipo rappresenterebbe la rivisitazione ontogenetica. L’ipotesi è che ogni individuo, nei suoi primi anni di vita, ripercorra le stesse tappe percorse dalla specie umana nel passaggio dallo stato di natura alla civiltà, perché, secondo Freud, “si deve supporre che ogni costrizione interna, la quale si dimostri valida nel corso della sviluppo umano, sia stata in origine, nella storia cioè dell'umanità, pressione puramente esterna” [2].

Il primo gruppo umano era costituito essenzialmente dal dominio di un unico uomo sulla propria donna e sui propri figli. Poiché il despota era il padre, i figli provavano emozioni ambivalenti e contrastanti nei suoi confronti: da una parte l’odio verso colui che reprime e limita la libertà di tutti per imporre la propria; dall’altra l’affetto biologico, il desiderio di imitarlo, sostituirlo, identificarsi con lui e la sua potenza. Ma ad un certo punto si consuma il parricidio: spinti dall’odio per il tiranno e dal desiderio di accoppiarsi con l’unica donna del gruppo, i figli prendono il posto del padre, che però sopravvive divinizzato e interiorizzato nel super-io al fine di conservare la coesione del gruppo. Il padre è riuscito ad inculcare ai figli il suo principio di realtà, di conseguenza “il progresso dal dominio da parte di uno al dominio da parte di molti, implica una diffusione sociale del piacere e fa sì che la repressione venga autoimposta nello stesso gruppo dominante: tutti i suoi membri devono osservare i tabù se vogliono conservare il potere. Ora la repressione permea la vita degli stessi oppressori” [3].

Quel che conta non è tanto se un'orda primordiale sia mai esistita veramente, quanto che il paradigma (mitico, allegorico o storico che sia) della nascita e dello sviluppo della civiltà (quindi del principio di realtà, quindi del super-io) secondo Freud sia essenzialmente quello di una famiglia governata dalla logica del dominio. L'atteggiamento contraddittorio dei figli nei confronti del despota, ribellione e allo stesso tempo identificazione e sottomissione, lo ritroviamo nel passaggio dalla pubertà all'età adulta nella famiglia borghese e in particolare in quella autoritaria.

Reich, riprendendo Freud, approfondisce l'analisi della funzione repressiva della sessualità cui assolve la famiglia attraverso l'educazione sessuofobica e istituzioni come il matrimonio monogamico. La famiglia, attraverso la figura del padre, è la più efficace istituzioni a compiere l'interiorizzazione del comando e dell'autorità sociale. E' il padre inibitore a imporre con la forza le prime relazioni comunitarie, sono le sue proibizioni a creare l'identificazione tra i figli, l'amore a meta inibita e la sublimazione [4]. Insomma la rimozione sessuale non coincide con la nascita della civiltà in generale ma con la nascita del patriarcato autoritario. Il padre autoritario è il rappresentante di una specifica organizzazione sociale: lo stato autoritario; si può quindi considerare la famiglia “come una cellula reazionaria, come il luogo più importante per la riproduzione dell'uomo reazionario e conservatore” [5]. A differenza di quanto teorizzato da Freud, per il quale il super-io è l'erede del complesso edipico, quindi di un processo intrafamiliare solo successivamente integrato da componenti sociali, per Reich e Fromm condizionamento paterno e condizionamento sociale sono inscindibili e interattivi, si sostengono e rafforzano a vicenda. Da una parte l'autorità del padre è veicolo e strumento all'interno della famiglia delle autorità sociali, dall'altra queste ultime sono investite come proiezione della figura paterna. La funzione repressiva svolta dalla famiglia risponde alle esigenze dell'ordinamento sociale capitalistico in cui la classe al potere ha l'interesse di imporre alle classi subalterne non solo il dominio materiale ma anche quello ideologico.

L'uomo educato e formato autoritariamente ha paura della propria sessualità perché non ha mai imparato a viverla naturalmente e ad autoregolarsi, non ha fiducia in se stesso non avendo sviluppato le capacità e le conoscenze che permettono di assumersi le proprie responsabilità e scelte. Insomma la repressione sessuale produce una irresponsabilizzazione e meccanizzazione delle masse, che a questo punto sentono il bisogno di essere dirette e guidate, “ci troviamo di fronte a una struttura umana che si è sviluppata nel corso di millenni di civilizzazione meccanicistica e che si è espressa nell'impotenza sociale e nel desiderio di avere una guida” [6]. L'ideologia sessuofobica favorisce la formazione di una corazza caratteriale [7] che rende passivi, acritici e disposti alla sottomissione o all'adattamento al ruolo che si riveste nella vita sociale. L'uomo fondamentalmente represso è un uomo fondamentalmente reazionario.

Inoltre se anche le condizioni economiche, sociali e politiche, da cui ugualmente dipende il processo di individuazione, non permettono la piena realizzazione della libertà del soggetto, la disposizione alla sottomissione non può che trasformarsi in un vero desiderio, per sfuggire all'insicurezza. Si innescano quelli che Fromm chiama meccanismi di fuga dalla libertà [8]. Caratteristica fondamentale è la rinuncia all'indipendenza del proprio essere individuale che viene dissolto nella rassicurante fusione con qualcuno (il capo) o qualcosa (la massa) al di fuori del proprio essere, che proprio in virtù di questa identificazione finisce per sostituire il sé individuale. Il soggetto perde l'integrità della sua individualità, il dubbio e la libertà, ma conquista nuova forza e nuova sicurezza immergendosi nel potere, fino al punto che anche “il significato della sua vita e l'identità del suo io sono determinati dalla più ampia entità in cui l'io si è sommerso” [9]. Tendenze masochistiche e sadiche sono presenti in varie forme e gradi anche nell'individuo sano ed esprimono nel modo più esplicito questo desiderio di sottomissione e di dominio, in quanto verso l'alto si è sottomessi e guidati ma verso il basso si è potenti e protetti. Freud definisce la massa come una regressione ad un'attività psichica primitiva del tutto analoga a quella dell'orda primordiale [10]: scomparsa della personalità singola cosciente, orientarsi di pensieri e sentimenti nelle medesime direzioni, necessità strutturale di un capo che sollevi la massa dall'angoscia del dubbio e dalla responsabilità della libertà. Sempre secondo Freud, qualsiasi massa, compresa quella alla base della democrazia moderna, consciamente o inconsciamente “vuole essere dominata e oppressa e temere il proprio padrone. Fondamentalmente conservatrice in senso assoluto, ha una profonda ripugnanza per tutte le novità e tutti i progressi e un rispetto illimitato per la tradizione” [11].

Il valore ideale e materiale che può fare di una moltitudine una unità, il suo minimo comune denominatore, è la figura del capo. Gli individui possono identificarsi l'uno con l'altro solo attraverso la comune identificazione in un terzo elemento: il capo che è in grado di incarnare l'ideale collettivo dell'io [12].; è lui l'istanza esterna che assume alcune delle più importanti funzioni dell'io e del super-io come la responsabilità, la coscienza morale e l'ideale dell'io. Perché possa nascere questo legame con il capo esso deve saper incarnare i sentimenti e i valori della massa e deve saper destare, o meglio deviare su di sé, gli stessi sentimenti familiari provati verso il padre autoritario. Nella massa, come nell'orda primordiale, è sempre “il padre primigenio l'ideale della massa che domina l'io invece dell'idea di io” [13]. Quanto più l'individuo in seguito alla sua educazione repressiva si sente impotente e frustrato, tanto più sente il bisogno di identificarsi con il capo, di sentirsi un tutt'uno con lui per far parte della sua potenza.

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1 Cfr. S. FREUD, Totem e tabù, Milano, Mondadori, 1997, p. 174
2 S. FREUD, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 42.
3 H. MARCUSE Eros e civiltà, Torino, Einaudi, 2001, p. 104.
4 Cfr. Ivi, p. 116.
5 W. REICH, Psicologia di massa del fascismo, Torino, Einaudi, 2009 p. 111.
6 Ivi, p. 227
7 Cfr. W. REICH, Analisi del carattere, Milano, Sugarco, 1994
8 Cfr, E. FROMM, Fuga dalla libertà, Milano, Mondadori, 1994
9 Ivi, p. 127.
10 Cfr. S. FREUD, Psicologia delle masse e analisi dell'io, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 120: “La massa ci appare quindi come una reincarnazione dell'orda originaria. Come in ogni singolo è virtualmente contenuto l'uomo primigenio, così a partire da una raggruppamento umano qualsivoglia può ricostituirsi l'orda primigenia”.
11 Ivi, p. 74.
12 Cfr. H. MARCUSE, L'obsolescenza della psicoanalisi, in Psicoanalisi e politica, Roma, Manifestolibri, 2006, p. 92
13 Ivi, p. 125.