Uno dei principali
rilievi che vengono mossi alla proposta di naturalizzazione radicale della conoscenza così come elaborata da Richard Rorty è il suo presunto condurre a una posizione
relativista o a uno sterile scetticismo universale. E' indispensabile focalizzare la ridescrizione che egli fornisce di questo concetto al
fine di comprendere in che modo egli si ponga al di là delle
critiche mossegli. L'accusa di relativismo è la conseguenza di una
antinomia tra due posizioni in merito alla 'verità': una posizione
in cui si sostiene l'esistenza di criteri di correttezza oggettivi e
assoluti (posizione che implica assunzioni metafisiche), e una
posizione che afferma che ogni 'verità' è 'relativa' a qualcosa –
culture, linguaggi, comunità, ecc.
Si possono
accomunare filosofi come Habermas e Putnam per la loro preoccupazione
fondamentale per la minaccia che rappresenterebbe il 'relativismo'
così come inteso sopra: Habermas ha mirato nella sua riflessione a
rifondare su un piano diverso, operativo e intersoggettivo,
quell'universalità della ragione che vede come presupposto
necessario al fine di rivitalizzare il progetto emancipativo
illuminista; Putnam, pur sostenendo che norme e criteri di
giustificazione sono prodotti storici e che essi si evolvono nel
tempo, non rinuncia all'idea di poter trovare “un modello di
giustificazione o di garanzia che non è quello di una comunità
umana particolare ma in qualche modo della natura”[1].
Sembra che l'unica
alternativa di chi rinunci al presupposto di una universalità e
quindi di una convergenza inevitabile verso un'unica 'Verità', sia
considerare parlanti di linguaggi diversi o appartenenti a culture
diverse impossibilitati a comprendersi vicendevolmente, in quanto
legati a dei contesti di giustificazione relativi e intraducibili.
Questo tipo di relativismo può essere formulato anche in termini
linguistici, ne è un esempio il relativismo ontologico di Quine:
l'imperscrutabilità del riferimento, che in qualche modo starebbe
'al di là' del linguaggio, impedisce di stabilire una traduzione
certa di un termine da una lingua a un'altra. A un altro tipo di
formulazione ho accennato nella prima parte: è la teoria degli
'schemi concettuali' che Davidson individua come terzo dogma
dell'empirismo: diversi 'schemi concettuali' imposti da diverse
culture e linguaggi implicano modi differenti di percepire e
organizzare i dati sensibili, generando conoscenze incommensurabili e
intraducibili.
Rorty sostiene
tuttavia che il significato stesso di 'posizione relativistica'
diviene del tutto incomprensibile una volta che si sono abbandonati
certi presupposti. Innanzitutto, rinunciando al rappresentazionalismo
e all'idea di uno spazio della ragione finito e strutturato in favore
di una visione della conoscenza come attività di giustificazione
delle credenze tra esseri umani, non si porrà più il problema di
stabilire quale sia il modo più corretto di 'rappresentare' la
realtà, né la tentazione di confrontare tali 'rappresentazioni'.
Come dice Davidson, occorre liberarsi delle rappresentazioni “e con
esse della teoria della verità come corrispondenza, perché è
l'idea che vi siano rappresentazioni a generare idee
relativistiche”[2]. Una
posizione relativista o assolutista assumono senso solo rimanendo nel
vocabolario in cui è possibile un punto di vista o un pensiero
'esterno' a un particolare linguaggio o schema concettuale. Partendo
da una prospettiva wittgensteiniana sul linguaggio, pensato non più
come mezzo inerte che distorce qualcosa di 'dato' ma come insieme di
pratiche e attività che gli uomini sviluppano per scopi diversi,
Davidson destituisce definitivamente di validità il discorso
'relativista': “la metafora dominante del relativismo concettuale –
quella dei punti di vista differenti – sembra celare un paradosso.
Punti di vista diversi possono essere sensati, ma soltanto se vi è
un sistema di coordinate comune nel quale disporli; e tuttavia
l'esistenza di un sistema comune smentisce la tesi
dell'inconfrontabilità profonda”[3].
La chiarificazione
di questa incongruenza discorsiva, esposta nel saggio già citato
intitolato Sull'idea stessa di schema concettuale, condivisa
in pieno da Rorty, apre a una prospettiva inaspettata. Rivela che la
nozione di relativismo poggia su una intuizione di 'intraducibilità
completa': infatti il 'relativista' sarebbe chi riconosce l'esistenza
di queste rappresentazioni o schemi concettuali diversi,
inconciliabili e intraducibili ma equivalenti e allo stesso tempo
ammette di poter riconoscerli come rappresentazioni e schemi
concettuali, ammette cioè di poterli confrontare tra di loro.
A questo punto
dunque è la intraducibilità completa che va discussa. Riassumendo
la questione con le parole di Rorty, “se non ci è possibile
trovare una traduzione, perché dovremmo pensare di avere a che fare
con utenti del linguaggio?”[4].
Questo significa che è impossibile riconoscere qualcosa come
linguaggio e al contempo ritenerlo totalmente estraneo alla nostra
comprensione: sarebbe indimostrabile. Lo stesso si può dire per gli
'schemi concettuali' e per i criteri di razionalità.
Un disaccordo
sensato può sussistere solo su uno sfondo di credenze per lo più
condivise: un disaccordo assoluto è una contraddizione in termini,
poiché è la negazione del riconoscimento dell'interlocutore in
quanto tale. Il nome che Davidson dà al 'principio pragmatico' che
interviene nella interpretazione (tra parlanti di una stessa lingua o
di lingue diverse, non fa differenza) è 'principio di carità', ed è
ciò che ci spinge ad attribuire all'interlocutore una grande
quantità di credenze vere come condizione per poterlo comprendere e
per far emergere le divergenze.
La teoria di
Davidson meriterebbe un approfondimento ben diverso, quello che
voglio aggiungere qui è come essa non contrasti e sia perfettamente
coerente con il naturalismo di Rorty. Essa non postula alcuna essenza
o natura umana universale, né un qualche principio astorico cui fare
riferimento; è perfettamente in sintonia con il 'darwinismo'
rortyano, cioè un “rendiconto degli umani intesi come animali con
organi e capacità specifiche: di come certe caratteristiche della
gola, delle mani e del cervello umani hanno consentito agli uomini di
cominciare a sviluppare pratiche sociali sempre più complesse
scambiandosi reciprocamente rumori sempre più complessi. Secondo
questo modo di rendere i fatti, questi organi e queste capacità, e
le pratiche che hanno reso possibili, hanno molto a che fare con chi
siamo e con ciò che vogliamo, ma non ci mettono in una relazione
rappresentazionale
con
una natura intrinseca delle cose più di quanto non facciano il muso
del formichiere o l'abilità dell'uccello di raso di tessere”[5].
Ma può ancora avere
un senso quella attività chiamata 'filosofia', che per definizione
dovrebbe mirare a un sapere incondizionato, in tale orizzonte?
[1]
Rorty R., Putnam
e la minaccia relativistica,
in Marchetti G. (a cura di), Neopragmatismo,
La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 98.
[2]
Davidson
D., The
Myth of the Subjective,
in Krausz M. (a cura di), Relativism:
interpretation and confrontation,
University of Notre Dame Press, Paris 1989, pp. 165-166.
[3]
Davidson D., Verità
e interpretazione,
Il Mulino, Bologna 1994 , p. 264.
[4]
Rorty R., Conseguenze
del pragmatismo,
Feltrinelli, Milano 1986 , p. 41.
[5]
Rorty R., Putnam
e la minaccia relativistica,
in Marchetti G.. (a cura di), cit., p. 95.