mercoledì 20 febbraio 2013

Per farla finita con il relativismo: contro l'intraducibilità







Uno dei principali rilievi che vengono mossi alla proposta di naturalizzazione radicale della conoscenza così come elaborata da Richard Rorty è il suo presunto condurre a una posizione relativista o a uno sterile scetticismo universale. E' indispensabile focalizzare la ridescrizione che egli fornisce di questo concetto al fine di comprendere in che modo egli si ponga al di là delle critiche mossegli. L'accusa di relativismo è la conseguenza di una antinomia tra due posizioni in merito alla 'verità': una posizione in cui si sostiene l'esistenza di criteri di correttezza oggettivi e assoluti (posizione che implica assunzioni metafisiche), e una posizione che afferma che ogni 'verità' è 'relativa' a qualcosa – culture, linguaggi, comunità, ecc.
Si possono accomunare filosofi come Habermas e Putnam per la loro preoccupazione fondamentale per la minaccia che rappresenterebbe il 'relativismo' così come inteso sopra: Habermas ha mirato nella sua riflessione a rifondare su un piano diverso, operativo e intersoggettivo, quell'universalità della ragione che vede come presupposto necessario al fine di rivitalizzare il progetto emancipativo illuminista; Putnam, pur sostenendo che norme e criteri di giustificazione sono prodotti storici e che essi si evolvono nel tempo, non rinuncia all'idea di poter trovare “un modello di giustificazione o di garanzia che non è quello di una comunità umana particolare ma in qualche modo della natura”[1].
Sembra che l'unica alternativa di chi rinunci al presupposto di una universalità e quindi di una convergenza inevitabile verso un'unica 'Verità', sia considerare parlanti di linguaggi diversi o appartenenti a culture diverse impossibilitati a comprendersi vicendevolmente, in quanto legati a dei contesti di giustificazione relativi e intraducibili. Questo tipo di relativismo può essere formulato anche in termini linguistici, ne è un esempio il relativismo ontologico di Quine: l'imperscrutabilità del riferimento, che in qualche modo starebbe 'al di là' del linguaggio, impedisce di stabilire una traduzione certa di un termine da una lingua a un'altra. A un altro tipo di formulazione ho accennato nella prima parte: è la teoria degli 'schemi concettuali' che Davidson individua come terzo dogma dell'empirismo: diversi 'schemi concettuali' imposti da diverse culture e linguaggi implicano modi differenti di percepire e organizzare i dati sensibili, generando conoscenze incommensurabili e intraducibili.
Rorty sostiene tuttavia che il significato stesso di 'posizione relativistica' diviene del tutto incomprensibile una volta che si sono abbandonati certi presupposti. Innanzitutto, rinunciando al rappresentazionalismo e all'idea di uno spazio della ragione finito e strutturato in favore di una visione della conoscenza come attività di giustificazione delle credenze tra esseri umani, non si porrà più il problema di stabilire quale sia il modo più corretto di 'rappresentare' la realtà, né la tentazione di confrontare tali 'rappresentazioni'. Come dice Davidson, occorre liberarsi delle rappresentazioni “e con esse della teoria della verità come corrispondenza, perché è l'idea che vi siano rappresentazioni a generare idee relativistiche”[2]. Una posizione relativista o assolutista assumono senso solo rimanendo nel vocabolario in cui è possibile un punto di vista o un pensiero 'esterno' a un particolare linguaggio o schema concettuale. Partendo da una prospettiva wittgensteiniana sul linguaggio, pensato non più come mezzo inerte che distorce qualcosa di 'dato' ma come insieme di pratiche e attività che gli uomini sviluppano per scopi diversi, Davidson destituisce definitivamente di validità il discorso 'relativista': “la metafora dominante del relativismo concettuale – quella dei punti di vista differenti – sembra celare un paradosso. Punti di vista diversi possono essere sensati, ma soltanto se vi è un sistema di coordinate comune nel quale disporli; e tuttavia l'esistenza di un sistema comune smentisce la tesi dell'inconfrontabilità profonda”[3].
La chiarificazione di questa incongruenza discorsiva, esposta nel saggio già citato intitolato Sull'idea stessa di schema concettuale, condivisa in pieno da Rorty, apre a una prospettiva inaspettata. Rivela che la nozione di relativismo poggia su una intuizione di 'intraducibilità completa': infatti il 'relativista' sarebbe chi riconosce l'esistenza di queste rappresentazioni o schemi concettuali diversi, inconciliabili e intraducibili ma equivalenti e allo stesso tempo ammette di poter riconoscerli come rappresentazioni e schemi concettuali, ammette cioè di poterli confrontare tra di loro.
A questo punto dunque è la intraducibilità completa che va discussa. Riassumendo la questione con le parole di Rorty, “se non ci è possibile trovare una traduzione, perché dovremmo pensare di avere a che fare con utenti del linguaggio?”[4]. Questo significa che è impossibile riconoscere qualcosa come linguaggio e al contempo ritenerlo totalmente estraneo alla nostra comprensione: sarebbe indimostrabile. Lo stesso si può dire per gli 'schemi concettuali' e per i criteri di razionalità.
Un disaccordo sensato può sussistere solo su uno sfondo di credenze per lo più condivise: un disaccordo assoluto è una contraddizione in termini, poiché è la negazione del riconoscimento dell'interlocutore in quanto tale. Il nome che Davidson dà al 'principio pragmatico' che interviene nella interpretazione (tra parlanti di una stessa lingua o di lingue diverse, non fa differenza) è 'principio di carità', ed è ciò che ci spinge ad attribuire all'interlocutore una grande quantità di credenze vere come condizione per poterlo comprendere e per far emergere le divergenze.
La teoria di Davidson meriterebbe un approfondimento ben diverso, quello che voglio aggiungere qui è come essa non contrasti e sia perfettamente coerente con il naturalismo di Rorty. Essa non postula alcuna essenza o natura umana universale, né un qualche principio astorico cui fare riferimento; è perfettamente in sintonia con il 'darwinismo' rortyano, cioè un “rendiconto degli umani intesi come animali con organi e capacità specifiche: di come certe caratteristiche della gola, delle mani e del cervello umani hanno consentito agli uomini di cominciare a sviluppare pratiche sociali sempre più complesse scambiandosi reciprocamente rumori sempre più complessi. Secondo questo modo di rendere i fatti, questi organi e queste capacità, e le pratiche che hanno reso possibili, hanno molto a che fare con chi siamo e con ciò che vogliamo, ma non ci mettono in una relazione rappresentazionale con una natura intrinseca delle cose più di quanto non facciano il muso del formichiere o l'abilità dell'uccello di raso di tessere”[5].
Ma può ancora avere un senso quella attività chiamata 'filosofia', che per definizione dovrebbe mirare a un sapere incondizionato, in tale orizzonte?


[1] Rorty R., Putnam e la minaccia relativistica, in Marchetti G. (a cura di), Neopragmatismo, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 98.
[2] Davidson D., The Myth of the Subjective, in Krausz M. (a cura di), Relativism: interpretation and confrontation, University of Notre Dame Press, Paris 1989, pp. 165-166.
[3] Davidson D., Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna 1994 , p. 264.
[4] Rorty R., Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano 1986 , p. 41.
[5] Rorty R., Putnam e la minaccia relativistica, in Marchetti G.. (a cura di), cit., p. 95.


Tecnologie del potere: Massa e autoritarismo







Freud elabora una vera e propria teoria filogenetica della civiltà [1], nei confronti della quale il complesso di Edipo rappresenterebbe la rivisitazione ontogenetica. L’ipotesi è che ogni individuo, nei suoi primi anni di vita, ripercorra le stesse tappe percorse dalla specie umana nel passaggio dallo stato di natura alla civiltà, perché, secondo Freud, “si deve supporre che ogni costrizione interna, la quale si dimostri valida nel corso della sviluppo umano, sia stata in origine, nella storia cioè dell'umanità, pressione puramente esterna” [2].

Il primo gruppo umano era costituito essenzialmente dal dominio di un unico uomo sulla propria donna e sui propri figli. Poiché il despota era il padre, i figli provavano emozioni ambivalenti e contrastanti nei suoi confronti: da una parte l’odio verso colui che reprime e limita la libertà di tutti per imporre la propria; dall’altra l’affetto biologico, il desiderio di imitarlo, sostituirlo, identificarsi con lui e la sua potenza. Ma ad un certo punto si consuma il parricidio: spinti dall’odio per il tiranno e dal desiderio di accoppiarsi con l’unica donna del gruppo, i figli prendono il posto del padre, che però sopravvive divinizzato e interiorizzato nel super-io al fine di conservare la coesione del gruppo. Il padre è riuscito ad inculcare ai figli il suo principio di realtà, di conseguenza “il progresso dal dominio da parte di uno al dominio da parte di molti, implica una diffusione sociale del piacere e fa sì che la repressione venga autoimposta nello stesso gruppo dominante: tutti i suoi membri devono osservare i tabù se vogliono conservare il potere. Ora la repressione permea la vita degli stessi oppressori” [3].

Quel che conta non è tanto se un'orda primordiale sia mai esistita veramente, quanto che il paradigma (mitico, allegorico o storico che sia) della nascita e dello sviluppo della civiltà (quindi del principio di realtà, quindi del super-io) secondo Freud sia essenzialmente quello di una famiglia governata dalla logica del dominio. L'atteggiamento contraddittorio dei figli nei confronti del despota, ribellione e allo stesso tempo identificazione e sottomissione, lo ritroviamo nel passaggio dalla pubertà all'età adulta nella famiglia borghese e in particolare in quella autoritaria.

Reich, riprendendo Freud, approfondisce l'analisi della funzione repressiva della sessualità cui assolve la famiglia attraverso l'educazione sessuofobica e istituzioni come il matrimonio monogamico. La famiglia, attraverso la figura del padre, è la più efficace istituzioni a compiere l'interiorizzazione del comando e dell'autorità sociale. E' il padre inibitore a imporre con la forza le prime relazioni comunitarie, sono le sue proibizioni a creare l'identificazione tra i figli, l'amore a meta inibita e la sublimazione [4]. Insomma la rimozione sessuale non coincide con la nascita della civiltà in generale ma con la nascita del patriarcato autoritario. Il padre autoritario è il rappresentante di una specifica organizzazione sociale: lo stato autoritario; si può quindi considerare la famiglia “come una cellula reazionaria, come il luogo più importante per la riproduzione dell'uomo reazionario e conservatore” [5]. A differenza di quanto teorizzato da Freud, per il quale il super-io è l'erede del complesso edipico, quindi di un processo intrafamiliare solo successivamente integrato da componenti sociali, per Reich e Fromm condizionamento paterno e condizionamento sociale sono inscindibili e interattivi, si sostengono e rafforzano a vicenda. Da una parte l'autorità del padre è veicolo e strumento all'interno della famiglia delle autorità sociali, dall'altra queste ultime sono investite come proiezione della figura paterna. La funzione repressiva svolta dalla famiglia risponde alle esigenze dell'ordinamento sociale capitalistico in cui la classe al potere ha l'interesse di imporre alle classi subalterne non solo il dominio materiale ma anche quello ideologico.

L'uomo educato e formato autoritariamente ha paura della propria sessualità perché non ha mai imparato a viverla naturalmente e ad autoregolarsi, non ha fiducia in se stesso non avendo sviluppato le capacità e le conoscenze che permettono di assumersi le proprie responsabilità e scelte. Insomma la repressione sessuale produce una irresponsabilizzazione e meccanizzazione delle masse, che a questo punto sentono il bisogno di essere dirette e guidate, “ci troviamo di fronte a una struttura umana che si è sviluppata nel corso di millenni di civilizzazione meccanicistica e che si è espressa nell'impotenza sociale e nel desiderio di avere una guida” [6]. L'ideologia sessuofobica favorisce la formazione di una corazza caratteriale [7] che rende passivi, acritici e disposti alla sottomissione o all'adattamento al ruolo che si riveste nella vita sociale. L'uomo fondamentalmente represso è un uomo fondamentalmente reazionario.

Inoltre se anche le condizioni economiche, sociali e politiche, da cui ugualmente dipende il processo di individuazione, non permettono la piena realizzazione della libertà del soggetto, la disposizione alla sottomissione non può che trasformarsi in un vero desiderio, per sfuggire all'insicurezza. Si innescano quelli che Fromm chiama meccanismi di fuga dalla libertà [8]. Caratteristica fondamentale è la rinuncia all'indipendenza del proprio essere individuale che viene dissolto nella rassicurante fusione con qualcuno (il capo) o qualcosa (la massa) al di fuori del proprio essere, che proprio in virtù di questa identificazione finisce per sostituire il sé individuale. Il soggetto perde l'integrità della sua individualità, il dubbio e la libertà, ma conquista nuova forza e nuova sicurezza immergendosi nel potere, fino al punto che anche “il significato della sua vita e l'identità del suo io sono determinati dalla più ampia entità in cui l'io si è sommerso” [9]. Tendenze masochistiche e sadiche sono presenti in varie forme e gradi anche nell'individuo sano ed esprimono nel modo più esplicito questo desiderio di sottomissione e di dominio, in quanto verso l'alto si è sottomessi e guidati ma verso il basso si è potenti e protetti. Freud definisce la massa come una regressione ad un'attività psichica primitiva del tutto analoga a quella dell'orda primordiale [10]: scomparsa della personalità singola cosciente, orientarsi di pensieri e sentimenti nelle medesime direzioni, necessità strutturale di un capo che sollevi la massa dall'angoscia del dubbio e dalla responsabilità della libertà. Sempre secondo Freud, qualsiasi massa, compresa quella alla base della democrazia moderna, consciamente o inconsciamente “vuole essere dominata e oppressa e temere il proprio padrone. Fondamentalmente conservatrice in senso assoluto, ha una profonda ripugnanza per tutte le novità e tutti i progressi e un rispetto illimitato per la tradizione” [11].

Il valore ideale e materiale che può fare di una moltitudine una unità, il suo minimo comune denominatore, è la figura del capo. Gli individui possono identificarsi l'uno con l'altro solo attraverso la comune identificazione in un terzo elemento: il capo che è in grado di incarnare l'ideale collettivo dell'io [12].; è lui l'istanza esterna che assume alcune delle più importanti funzioni dell'io e del super-io come la responsabilità, la coscienza morale e l'ideale dell'io. Perché possa nascere questo legame con il capo esso deve saper incarnare i sentimenti e i valori della massa e deve saper destare, o meglio deviare su di sé, gli stessi sentimenti familiari provati verso il padre autoritario. Nella massa, come nell'orda primordiale, è sempre “il padre primigenio l'ideale della massa che domina l'io invece dell'idea di io” [13]. Quanto più l'individuo in seguito alla sua educazione repressiva si sente impotente e frustrato, tanto più sente il bisogno di identificarsi con il capo, di sentirsi un tutt'uno con lui per far parte della sua potenza.

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1 Cfr. S. FREUD, Totem e tabù, Milano, Mondadori, 1997, p. 174
2 S. FREUD, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 42.
3 H. MARCUSE Eros e civiltà, Torino, Einaudi, 2001, p. 104.
4 Cfr. Ivi, p. 116.
5 W. REICH, Psicologia di massa del fascismo, Torino, Einaudi, 2009 p. 111.
6 Ivi, p. 227
7 Cfr. W. REICH, Analisi del carattere, Milano, Sugarco, 1994
8 Cfr, E. FROMM, Fuga dalla libertà, Milano, Mondadori, 1994
9 Ivi, p. 127.
10 Cfr. S. FREUD, Psicologia delle masse e analisi dell'io, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 120: “La massa ci appare quindi come una reincarnazione dell'orda originaria. Come in ogni singolo è virtualmente contenuto l'uomo primigenio, così a partire da una raggruppamento umano qualsivoglia può ricostituirsi l'orda primigenia”.
11 Ivi, p. 74.
12 Cfr. H. MARCUSE, L'obsolescenza della psicoanalisi, in Psicoanalisi e politica, Roma, Manifestolibri, 2006, p. 92
13 Ivi, p. 125.

sabato 19 gennaio 2013

Tecnologie del potere: Macchina molare paranoica







La libido, il flusso intensivo originario, produttivo e desiderante, può essere organizzato secondo due modalità: “molare o molecolare. L'ordine molare corrisponde alle stratificazioni che delimitano gli oggetti, i soggetti, le rappresentazioni e i loro sistemi di riferimento. L'ordine molecolare, al contrario, riguarda i flussi, i divenire, le transizioni di fase, le intensità”[1]. In altre parole la macchina molare spezza in segmenti il flusso molecolare [2], ripiega la produzione della macchina desiderante sul piano del rappresentativo immaginario e delle strutture. Assoggettamento e burocratizzazione sono alcuni dei prodotti di questa macchina che misconosce e reprime il desiderio, ma la molarità è ovunque ci sia una gregarietà totalitaria, ovunque grandi macchine tecnologiche o istituzionali operino un'unificazione delle forze molecolari. Le più grandi unità prodotte da queste macchine molari sono quella biologica della species e quella strutturale del socius che formano l'unità dell'organismo sociale vivente.

L'opposizione tra molecolare e molare è la stessa che c'è tra schizofrenia e paranoia, queste ultime sono prima di tutte determinazioni sociali e politiche, la loro accezione strettamente psichiatrica ne è solo una derivata. In termini generali la linea molare paranoica e fascista va verso i fenomeni di folla, dei grandi insiemi, fa della macrofisica. Al contrario la linea molecolare schizofrenica e rivoluzionaria si addentra nelle singolarità, nelle molecole che non obbediscono più alle leggi statistiche, fa della microfisica. Il primo è un investimento di gruppo assoggettato che reprime e rimuove il desiderio dei soggetti; il secondo è un investimento di gruppo soggetto che mantiene il desiderio come fenomeno molecolare, come flusso, in opposizione agli insiemi e alle identità individuali. Naturalmente i gruppi assoggettati comprendono anche i dominanti e i padroni che ci sono al loro interno, “la gerarchia, l'organizzazione verticale o piramidale che li caratterizza è fatta per scongiurare ogni possibile iscrizione di non-senso, di morte o di esplosione; per impedire lo sviluppo di rotture creatrici, per assicurare i meccanismi di autoconservazione fondati sull'esclusione degli altri gruppi, il loro centralismo opera per strutturazione, totalizzazione, unificazione”[3]. I gruppi soggetto sono rivoluzionari perché rispetto a questo sistema tracciano delle linee di fuga attive e positive, restituiscono il potere di trasformare il reale alle macchine desideranti e permettono la formazione di un campo sociale di vero desiderio. La schizofrenia diventa una malattia solo nel momento in cui viene arrestata e viene repressa la macchina desiderante, altrimenti è la produzione desiderante stessa ad essere schizofrenica, proprio in quanto traccia queste linee di fuga. Il socius, in quanto macchina e sistema molare, codifica i flussi del desiderio, li regola e canalizza, li registra e iscrive in vari modi; di contro “lo schizo dispone di modi di orientazione che gli son propri, perché dispone innanzitutto d'un codice di registrazione particolare che non coincide col codice sociale o non coincide con esso se non per farne la parodia. Il codice delirante, o desiderante, presenta una straordinaria fluidità. Si direbbe che lo schizofrenico passi da un codice all'altro, che confonda tutti i codici”[4].

Nel corso della storia dell'uomo si sono susseguite diverse macchine sociali molari, diverse strategie di potere e tecnologie di dominio. Le macchine sociali precapitalistiche, creando e applicando un socius, vincono la paura e l'angoscia dei flussi del desiderio codificandoli. La società primitiva iscrive il desiderio sul corpo della terra: la macchina territoriale primitiva codifica i flussi contrassegnando i corpi come appartenenti alla terra, ogni individuo ha il corpo marcato e ricondotto in ogni sua funzione alla collettività. La società barbarica invece iscrive il desiderio in modo paranoico sul corpo del despota: la macchina dispotica deterritorializza il desiderio dal codice territoriale solo per surcodificarne immediatamente i flussi nel grande significante incarnato dal despota, dallo stato, dalla legge e dall'interdetto.

La società capitalistica iscrive il desiderio sul corpo del capitale-denaro: i flussi vengono prima decodificati, deterritorializzati, e subito assiomatizzati. A differenza della surcodificazione dispotica, nello stato regolatore capitalistico l'iscrizione e la repressione non si applicano più sui corpi e sulle persone, perché al contrario le precedono. La persona individuale ha “un ruolo d'applicazione, e non più d'implicazione in un codice”[5], è privata e individualizzata nella misura in cui deriva dalle quantità astratte, sono queste ultime ad essere marcate al suo posto, così prima dell'individuo vengono il suo capitale o la sua forza-lavoro, e solo tramite questi egli trova il suo posto nell'apparato tecnico e di conseguenza nella società. I pezzi di questa macchina sociale molare non sono più i corpi degli uomini, divenuti appendici delle macchine tecniche, ma le macchine tecniche stesse. La macchina capitalistica all'idea stessa di codice ha sostituito un'assiomatica delle quantità astratte che necessita piuttosto di una decodificazione e deterritorializzazione del socius. Ma il capitalismo, lungi dal liberare realmente le macchine desideranti instaura un assoggettamento senza precedenti, perché “non c'è più neppure padrone; solo degli schiavi, ora, comandano agli schiavi e non c'è più bisogno di caricare l'animale dall'esterno, dato che si carica da sé. Non che l'uomo sia mai schiavo della macchina tecnica; ma schiavo della macchina sociale sì e il borghese ne dà l'esempio, il borghese che assorbe il plusvalore a fini che, nel loro insieme, non han nulla a che vedere col suo godimento: più schiavo dell'ultimo degli schiavi, primo servo della macchina affamata, bestia da riproduzione del capitale, interiorizzazione del debito infinito. Anch'io sono schiavo, ecco le parole del nuovo padrone”[6].


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1 F. GUATTARI, Piano per il pianeta. Capitale mondiale integrato e globalizzato, Verona, Ombre corte, 1997
2 Cfr. M. GUARESCHI, Deleuze e Guattari: cartografi di contrade a venire, in G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani, Roma, Castelvecchi, 2003, p. 20: “Ogni aggregato sociale si compone di segmenti e flussi, di flussi che sfuggono e di segmenti, organizzati lungo linee molari, che li bloccano. Il livello molare (stato, ceto, nazione o classe per esempio) opera per linee di codificazione binaria che rallentano e irrigidiscono i flussi e i vortici molecolari stratificandoli in strutture segmentarie. I flussi a loro volta investono con il loro procedere molecolare le sedimentazioni e cristallizzazioni molari, provocando oscillazioni, slittamenti, fratture e riconfigurazioni. I due livelli, ovviamente, sono inestricabilmente connessi: un flusso passa sempre fra due segmenti, i segmenti, da parte loro, per cristallizzare necessitano dell'apporto energetico dei flussi”.
3 G. DELEUZE, Tre problemi di gruppo, in L'isola deserta e altri scritti, Testi e interviste 1953-1974, Torino, Einaudi, 2007, p. 250.
4 G. DELEUZE e F. GUATTARI, L'Anti-Edipo, Torino, Einaudi, 2002, p. 17.
5 Ivi, p. 286.
6 Ivi, p. 289


giovedì 3 gennaio 2013

Tecnologie del potere: Società di controllo






La storia recente, soprattutto dall'età classica, è la storia di una normalizzazione. Come emerge dalla genealogia di Foucault, dal XVIII secolo la funzione più importante del potere non è più di uccidere ma di investire la vita totalmente, attraverso le regolazioni della popolazione e le discipline del corpo: “la vecchia potenza della morte in cui si simbolizzava il potere sovrano è ora ricoperta accuratamente dall'amministrazione dei corpi e dalla gestione calcolatrice della vita” [1]. Si tratta di una nuova tecnologia del potere funzionale allo sviluppo del capitalismo, una bio-politica [2] che, agendo per mezzo della biologia sulla specie e per mezzo dell'anatomia sull'individuo e le sue attività del corpo, ha permesso e ottimizzato l'adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici e l'inserimento controllato dei corpi nell'apparato di produzione.

Queste tecniche di potere inventate nel XVIII secolo sono presenti a tutti i livelli del corpo sociale visto che sono state impiegate da svariate istituzioni quali la famiglia, l'esercito, la scuola, la polizia, la medicina, l'amministrazione burocratica. Ma sono presenti anche e soprattutto a livello dei processi economici come tecniche di gerarchizzazione sociale, di dominazione ed egemonia. “L'adeguarsi dell'accumulazione degli uomini a quella del capitale, l'articolazione della crescita dei gruppi umani con l'espansione delle forze produttive e la ripartizione differenziale del profitto, sono stati resi possibili in parte dall'esercizio del bio-potere, nelle sue forme e con i suoi procedimenti svariati”[3], dall'investimento da parte del potere del corpo vivente, dalla sua valorizzazione e dalla gestione scientifica delle sue forze. Le precedenti società di sovranità invece avevano altri fini e funzioni: decidere della morte piuttosto che gestire le vita, prelevare piuttosto che organizzare la produzione. Con lo sviluppo del bio-potere il sistema giuridico della legge e della punizione viene pian piano sostituito per efficacia ed importanza dalla norma. Una società normalizzatrice, disciplinare, è l'effetto storico di una tecnologia del potere centrata sulla vita anziché sulla morte ed ha come tecnica ideale l'internamento. Ospedale, prigione, scuola, caserma, e quel che più conta, fabbrica, sono tutti ambienti di internamento in cui lo scopo principale è concentrare, ripartire nello spazio ed ordinare nel tempo, cioè estrarre dagli individui una forza produttiva maggiore ottimizzando al massimo spazio e tempo.

Proprio della tecnologia del potere nella società disciplinare e delle sue diverse istituzioni si è occupato a lungo Foucault, il quale però “è stato fra i primi a sostenere che le società disciplinari sono precisamente ciò da cui ci stiamo allontanando, che sono ciò che noi ormai non siamo più. Stiamo entrando in società di controllo che non funzionano più sul principio dell'internamento, bensì su quello del controllo continuo e della comunicazione istantanea”[4]. O meglio, si tratta di un modello diverso di società disciplinare, in cui la disciplina domina i corpi e le menti prevalentemente al di fuori dei luoghi d'internamento. Tutti i cittadini, in ogni momento della loro vita e in ogni luogo, sono inseriti in una rete di relazioni attraverso cui il potere si esercita continuamente, perché ogni individuo è di fatto portatore del potere e soggetto al potere. Questa nuova forma di potere non si incarna più nella forza, nella superiorità naturale, ma in ogni singolo individuo che collocato in una rete di relazioni o in uno spazio predeterminato esercita su sé stesso e sugli altri una forma di controllo sociale, di omologazione e normalizzazione; “così il potere centrale si rende invisibile ma è costantemente all'opera per assicurarsi dei servigi di ogni individuo che non può più sfuggire alle maglie della rete di cui è un semplice nodo e che a sua volta può svolgere una funzione di controllo su un altro”[5].

Il capitalismo del XVIII e XIX secolo è essenzialmente concentrazionario. Orientato alla proprietà e alla produzione, il suo motore è l'accumulo e la concentrazione tanto del capitale privato, quanto della produzione in luoghi d'internamento: le fabbriche. Al contrario dal XX secolo il capitalismo è diventato essenzialmente dispersivo, ha decentrato e delocalizzato la produzione nelle periferie del terzo mondo, la fabbrica è stata sostituita dall'impresa. Non è più un capitalismo orientato alla produzione ma al prodotto, cioè alla vendita e al mercato, ne consegue una nuova tecnologia di dominio: “il marketing è ora lo strumento del controllo sociale e forma la razza impudente dei nostri padroni. Il controllo è a breve termine e a rapida rotazione, ma anche continuo e illimitato, mentre la disciplina era di lunga durata, infinita e discontinua. L'uomo non è più l'uomo rinchiuso ma l'uomo indebitato”[6]. Gli internamenti sono stampi, calchi rigidi, mentre i controlli sono una modulazione, calchi adattabili che cambiano continuamente a seconda delle esigenze. Deleuze individua due poli caratteristici del rapporto massa-individuo nella società disciplinare: la firma che indica l'individuo, e il numero o matricola che indica la sua posizione in una massa. E' quindi un potere allo stesso tempo massificante e individualizzante, “nella società di controllo, viceversa, la cosa essenziale non è più né una firma né un numero, ma una cifra: la cifra è un lasciapassare, mentre le società disciplinari sono regolate da parole d'ordine”[7]. Il passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo è lo stesso passaggio dalla repressione dell'individuo alla sua amministrazione.



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1 M. FOUCAULT, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 123.
2 Cfr. M. FOUCAULT, Nascita della biopolitica, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 261:”La biopolitica, termine con il quale intendevo fare riferimento al modo con cui si è cercato, dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica governamentale dai fenomeni specifici di un insieme di esseri viventi costituiti in popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razze. E' noto quale spazio crescente abbiano occupato questi problemi a partire dal XIX secolo e quali poste politiche ed economiche abbiano costituito sino a oggi”.
3 M. FOUCAULT, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 125.
4 G. DELEUZE, Controllo e divenire, in Pourparler, Macerata, Quodlibet, 2000, p. 230.
5 S. BERNI, Soggetti al potere, Milano, Mimesis, 1998, p. 20.
6 G. DELEUZE, Poscritto sulle società di controllo, in Pourparler, Macerata, Quodlibet, 2000, p. 239.
7 Ivi, p. 237.